venerdì 4 gennaio 2019

Myanmar 8 Mandalay

8 novembre 2018      Giovedì       G8    in battello a Mandalay



Sveglia implacabile prima delle 4, la Lella è spezzata dai dolori di stomaco, riempiamo i sacchi dei bagagli e scendiamo ad aspettare il taxi per andare al porto fluviale, Mai Mai è già in attesa e ci accompagna sulla strada deserta buia come la pece fino al porto di Nyang U.
La partenza del battello è prevista per le 5,30 e bisogna arrivare mezz’ora prima.
L’auto si avvicina fino alla spiaggia dove un bus e un automobile ci hanno preceduto, qualche persona si aggira illuminata dai fari, come fantasmi stracarichi di bagagli ci uniamo alla processione, attraversiamo il ponte di un battello e, camminando su un asse di 20 cm lungo qualche metro, saliamo sulla barca successiva usando come corrimano un palo di bamboo sorretto da due marinai. Evidentemente hanno un concetto di sicurezza diverso dal nostro, e tutto nel buio rischiarato da qualche fioca lampadina sul ponte.
Lasciamo i bagagli al deposito, un sottoscala, e ci accomodiamo sulle poltroncine di bamboo disposte a coppie ai due lati del ponte coperto da un tendalino ma aperto ai lati.
E’ ancora buio pesto quando il battello salpa per navigare le acque dell’Irrawadi nere come inchiostro, mi domando come si orienti tra le secche il nostro timoniere.
Fa piuttosto freddo e la Lella piegata in due soffre in silenzio, comincio a pensare che sia un’intossicazione alimentare, i gamberetti di fiume e il ristorante a pranzo mi fanno dubitare.
Il corso del fiume è molto largo, si intuisce dalle rare lucine fioche di capanne o pescatori sulla riva, abbiamo già navigato per oltre un’ora quando comincia ad albeggiare e sulle rive si intuiscono le prime forme.





Allo spuntar del sole siamo prossimi ad un lungo ponte di ferro, c’è fermento tra i passeggeri che si spostano a poppa, libera dal tendalino, per scattare un po’ di foto.








Il fiume scorre pigro, le acque gialle e limacciose, rive sabbiose si susseguono meandro dopo meandro, oltre si estendono campi di una pianura verde punteggiata da capanne e grandi alberi solitari.




Incrociamo altri battelli, piccole barche da pesca ed enormi chiatte cariche di materiale spinte da rimorchiatori agganciati a poppa su un lato, una strana barca che pare uscita da un libro di Salgari giace arenata sulle secche, forse in attesa di una preda da abbordare.




A tratti la riva si alza in una falesia di sabbia e arenaria che pare in procinto di franare sotto l’erosione della debole corrente, ogni tanto uno stupa dorato lancia bagliori sotto il sole.


Pensavo che la navigazione mostrasse un panorama più vario, invece la monotonia è rotta solo dal ritmo dei pasti, la colazione che ti servono in piccoli cestini di cartoncino e le bevande calde servite all’interno da grandi thermos, il pranzo che arriva su vassoi, la merenda di pancakes e caffè.




La lella ancora dolorante non tocca nulla, ora riposa sdraiata su una panca a poppa.
Il caldo si fa sentire, il debole venticello che soffia a tratti non dà abbastanza sollievo.




Sulla sabbia gruppi di capanne, uomini che setacciano la rena facendone dei mucchi, il profilo delle mucche al pascolo si staglia sulla riva erbosa, contadini che arano preceduti da un tiro di buoi, grandi alberi a ombrello e palme fanno ombra a stalle e capanne, con la macchina fotografica in panne mi mangio le mani, senza uno zoom adeguato il telefono non la può sostituire.


Nel primo pomeriggio siamo in prossimità di una coppia di lunghissimi ponti in metallo dalle strutture un po’ diverse, sulla sinistra in una zona collinare coperta da foreste spuntano templi, stupa e pagode a decine, un grande Budda risalta nella moltitudine, è  la zona di Shin Pin Nan Kain poco distante da Mandalay,









Il traffico di battelli si intensifica, aumenta il numero di costruzioni e di attività lungo le rive ed eccoci a Mandalay, un’enorme imbarcazione dorata con due enormi uccelli a prua ed elefanti bianchi sembra l’incrocio tra un vaporetto a ruota e una nave da crociera.






Alle 4 siamo all’attracco, ancora una volta una passerella precaria ci porta sulla riva, nell’acqua bassa una donna fa il bucato nel fiume giallo, ci inerpichiamo a fatica su un sentiero ripido a gradini altissimi fino alla cima dell’alzaia dove gli immancabili taxisti ci attendono come gli indiani alla strettoia del canyon.




Un motocarro con panche sul cassone ci imbarca e quasi sgomitando nel traffico intensissimo dell’imbrunire, tra centinaia di ciclomotori, biciclette e Apetaxi tutti imbottigliati da un continuo fluire di pedoni, scopriamo cosa significa ressa.




Sempre con una lieve preoccupazione sul fondo dei pensieri dopo la pessima esperienza del primo hotel a Bagan, veniamo depositati all’hotel 8, vedendo l’esterno e poi la reception tiro un respiro di sollievo, tutto è in condizioni ottime. Ci accompagnano alla stanza e la Lella sempre dolorante collauda subito il letto.
Mi porto avanti cercando di prenotare il bus che ci porterà alla prossima tappa, Hsipaw, alla reception i ragazzi, gentili come sempre, telefonano, si informano, ci procurano i biglietti e pick-up davanti all’hotel.
Risolta questa parte rimango un po’ a far compagnia alla Lella che non sembra migliorare nonostante antibiotico intestinale e fermenti lattici, il letto ha il sopravvento, mi abbiocco un’oretta.
Appurato che di mangiare non ha nessuna voglia faccio una puntata al volo in un ristorantino suggerito dalla guida che si trova a un paio d’isolati, Shan Ma Ma, si mangia in strada e i piatti non sono male, i prezzi come sempre molto economici. 
Torno subito in hotel sperando che domani lo stomaco stia un po’ meglio.

Nessun commento:

Posta un commento