venerdì 25 gennaio 2019

Myanmar 11 Hsipaw

11 novembre 2018        Domenica            G11                           Hsipaw


E’ ora di lasciare la caotica Mandalay, alle 7 abbiamo prenotato un posto sul pulmino diretto a Hsipaw, puntuali come svizzeri siamo alla reception in attesa con tutti i bagagli, l’autista arriva mezz’ora dopo e il pulmino è una scatoletta tipo quelli usati dalle suore, l’edizione asiatica del vecchio 900 Fiat. Ci buttano il sacco sul tetto senza nemmeno legarlo e si parte, più di un’ora e mezza in giro per la città a raccattare il resto dei passeggeri, il sedere già duole sotto la spinta dei tubi sui sedili sfondati, di positivo c’è una visita extra a quartieri centrali e periferici che non abbiamo visto e ci rendiamo conto delle reali dimensioni della città.
Il traffico è spropositato, plotoni di ciclomotori stracarichi sfrecciano in ogni direzione fluendo tra auto e camion come sabbia tra le dita, ad ogni incrocio si teme il peggio, ma miracolosamente non vediamo mai un incidente, tutti strombazzano ma nessuno si agita o si irrita e finalmente imbocchiamo la Eastern Motorway. Pochi km ci conducono tra le prime colline, costellate di cave dove ruspe e bulldozer si muovono senza posa sollevando un polverone infernale che si deposita ovunque, anche all’interno visto che siamo costretti a tenere i finestrini aperti non essendoci l’aria condizionata.



Dopo un po’ di serpeggiamenti nella valle, la strada si inerpica con una pendenza ardita e innumerevoli tratti sterrati sul fianco dei monti. Anche qui l’atmosfera è surreale, tornanti serrati uno attaccato all’altro, lavori in corso ovunque, buche ciclopiche. A tratti la strada è larghissima e sterrata, pare un fiume in secca immerso nella polvere, le auto rallentate dalla pendenza si sorpassano a destra e a sinistra in salita, bloccate da camion antidiluviani stracarichi. I mezzi che scendono sfrecciano incuranti di chi sorpassa in salita, creando situazioni mortali ad ogni curva, il tutto in un polverone reso opalescente dal sole, mentre i   lunghissimi autoarticolati spazzano i tornanti dall’esterno all’interno e poi ancora all’esterno per curvare senza far manovra.
Non si capisce come riesca a salire il nostro microbo stracarico, ma, ansando, ci porta in alto dove ricompare l’asfalto a tratti, siamo circondati da una foresta di alberoni dai tronchi giganti che si lanciano nel cielo. Enormi baniani intricati di liane che scendono diventando radici sembrano la scompigliata testa di un rasta, palme, banani, alberi sconosciuti dai rami enormi che si allargano in orizzontale su cui immagini un leopardo. La natura erompe prepotente inondandoti gli occhi di mille tonalità di verde e di marrone accese da un sole caldo, anche in questa zona ci sono pochi uccelli, non capisco come mai.
Superati i 1000 metri di quota ci muoviamo su un altopiano collinare scrollati dall’asfalto sconnesso e dai saliscendi in curva. Compaiono dei boschi di conifere ed eccoci tra coltivazioni e floricolture, con bancarelle multicolori che vendono fiori recisi a bordo strada, un magnifico panorama di campi di riso e mais a terrazze digrada nella grande conca pianeggiante di Nawnghkio. 


E’ un villaggio insignificante ma trafficatissimo, dal mercato congestionato di bancarelle e figure colorate, dove tutti i viaggiatori sostano per mangiare o bere qualcosa e noi con loro. Irrigiditi dalle ore passate a sedere sbarchiamo a fatica muovendoci come vecchi con l’artrite, ci guardiamo attorno per capire mentre gli autisti lavano il motore con un tubo da giardino. 


Tutti entrano in una enorme tettoia ristorante e noi seguiamo la massa, tutto è scritto e descritto con i teneri caratteri tondeggianti dell’alfabeto locale, non ci resta che affidarci alla sorte e ai soliti piatti che si trovano ovunque. Porzioni da camionista e sapori decenti ci accompagnano mentre osserviamo i locali che pranzano intorno a noi, famiglie di etnie diverse con costumi colorati e stuoli di bimbi tranquilli ed educati di ogni età, ragazzi che ridono e scherzano, camionisti che confabulano e instancabili cuochi tra vapore e fornelli che alimentano tutti.
Sono solo le dieci e non abbiamo molta fame, il tè cinese sa di fumo e il bagno è terribile, un allenamento all’apnea. Dopo tre quarti d’ora si riparte, la strada precipita ripidissima in una valle per poi risalire sull’altro versante, ancora un paio di valli ci portano in una zona tutta terrazzata a risaie e costellata di morbide colline. In lontananza si vedono i contadini che lavorano protetti dal cappello a cono, fattorie, campi arati e tanta vegetazione, un branco di bufali d’acqua pascola tranquillo mentre un uccellino posato sul dorso di una delle bestie si guarda attorno.
Ormai prossimi alla destinazione il furgoncino si perde nelle stradine di campagna per accompagnare a casa i passeggeri, sobbalziamo nelle buche tra paesaggi dal sapore esotico a cui non siamo abituati. Sono le due di pomeriggio e finalmente siamo a Hsipaw, sei ore abbondanti di pulmino hanno reso le gambe quasi inservibili, rispondono impacciate al tentativo di muoverle. 



Il nostro hotel, il Northern Land, non è molto lontano, lo troviamo in fretta, ci sistemano in una camera decorosa ma piuttosto calda, siamo all’ultimo piano.
Siamo impolverati come vecchi soprammobili, una doccia ci rimette in sesto e il ristorante cinese accanto completa l’opera.




La prima visita nel pomeriggio assolato è dedicata alla Mahamyatmuni paya, il tempio più grande, ori e decorazioni circondano un Budda seduto, accanto un laghetto con altare al centro brulica di pesci cui i bambini lanciano cibo in segno di devozione.








Il mercato ci riporta ad una dimensione più terrena, sono soprattutto donne che si affaccendano ai banchi, sotto le tettoie buie, ordinando la frutta e pulendo le verdure, oppure sedute accanto al telo su cui sono stese le merci. 









Qui si nota decisamente la mescolanza di etnie differenti, le figure non sono solo esili e slanciate, ci sono fisici più tarchiati e carnagioni dalle tonalità differenti, soprattutto i costumi rivelano appartenenze diverse.




Lungo la strada una serie infinita di venditori propone le proprie merci in silenzio, nel traffico di passanti a piedi e in bicicletta, qui, a differenza delle città, i turisti sono rari e risaltano come fari nella notte. 



Un grande baniano accoglie un tempietto dedicato ai Nat sul troco intricato, una serie di ristoranti con terrazza si affaccia alla riva del fiume, dove le barche caratteristiche dallo scafo allungato e il motore appoggiato a poppa con il lungo albero dell’elica regnano sovrane.






Un meritato riposo e siamo pronti alla seconda uscita, prima prenotiamo il viaggio successivo verso Nyaung Shwe, sulle rive del lago Inle, questa volta mi assicuro prima che il pulmino sarà di dimensioni accettabili e con aria condizionata.
La strada principale è costeggiata da costruzioni di mattoni che ospitano negozi e ristoranti, i venditori di elettronica abbondano e immagini di smartphones campeggiano ovunque.
Una grande costruzione dorata a più piani sorretta da colonne di cemento più che un tempio dà l’impressione di un hotel, o di una scuola religiosa, segna la fine delle costruzioni. Un ponte attraversa un rigagnolo e da qui solo capanne e baracche costeggiano la strada, in un’interminabile serie di tettoie che ospitano attività commerciali di ogni tipo.
Questa volta snobbiamo i ristoranti birmani e tentiamo la sorte da Mr Pizza, il padrone sta pulendo per chiudere il locale ma è gentilissimo e riapre per noi, premiati per l’azzardo mangiamo delle pizze abbastanza simili a quelle italiane.


Per oggi abbiamo concluso, ce ne torniamo all’hotel osservando la vita che brulica al bordo della strada dopo il caldo diurno.

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