venerdì 10 luglio 2020

Colle delle Finestre e colle Assietta

MONTI DEL TORINESE, MONFERRATO AL RITORNO



Partenza da Casa il 7 luglio, alle 6,45 sono già in bici e devo dire è stata una buona idea perché il cielo blu porta una calura discreta fin dalle prime ore di sole.

Passo da Vercelli, Trino(conosciuta per la presenza di una delle tre centrali nucleari italiane costruite e mai entrate in attività), attraversando la mia pianura, coltivata prevalentemente a riso, che in questo periodo risplende di un verde brillante coperta dal morbido manto delle piantine che nascondono il terreno bagnato.

Migliaia di uccelli popolano la campagna umida, dagli aironi alle gazzette ai nuovi arrivati ibis sacri e tanti altri più piccoli ma non meno belli.

Prossimo ad attraversare il fiume Po mi fermo a fare una colazione di mezza mattina a Crescentino, parcheggio la bici e mascherato come il Corona-Punisher ordino latte macchiato e cornetto al cioccolato. Mentre me li godo seduto ad un tavolino all'esterno si sente un forte colpo secco, come di uno sparo e i clienti del tavolo vicino parlottano tra loro chiedendosi chi spara in paese.

Quando torno alla bici scopro di avere la gomma anteriore a terra, spalla del copertone tagliata vicino al cerchio. Accidenti, questa non ci voleva, fortunatamente mi indicano un meccanico di bici a una cinquantina di metri di distanza.

Con disappunto scopro che è molto poco fornito e ne capisce meno di me quanto a dimensioni dei pneumatici, posso scegliere tra una 700/35 a due soldi e una 29' da mtb decisamente più grande di quella che monto al posteriore e parecchio cara. Scelta scontata, compro pneumatico e due camere per 20€ e le sostituisco fuori dal negozio, il padrone è così gentile da smaltire i cadaveri e prestarmi una pompa grande per risparmiare un po' d'energia.

Riparto gommato come una formula 1, pneumatico stretto davanti e più largo dietro, sperando che regga lo stress che lo aspetta con il grande carico sullo sterrato.
Ora che mi ricordo non ne ho parlato, il carico!  Ho una versione bikepacking leggera rispetto ai viaggi lunghi, del resto prevedo solo tre giorni, ammesso di farcela. Non ho portato il fornello e una scorta di viveri, ho solo cioccolato, qualche barretta e albicocche secche. Il materiale da campeggio è il solito, tenda Ferrino, sacco a pelo Ferrino e materassino, abbigliamento di ricambio minimo e una giacca leggera per la montagna.

Attraversato il Mississippi de no'antri costeggio le colline in un dolce saliscendi fino a Torino dove attraverso alternando piste ciclabili, viali e quasi superstrade seguendo le indicazioni per Susa.
A Pianezza con oltre 100 km nelle gambe mi fermo in un parchetto con fontanella per una sosta a suon di barretta e albicocche secche, svengo una mezz'ora sulla panchina e, suonato come un pugile riparto verso il colle delle Finestre.

All'imbocco della val di Susa la Sacra di S. Michele mi osserva dall'alto, con relativa tranquillità salgo per la vallata seguendo la vecchia statale 24 fino al bivio che mi porta verso Meana di Susa, i primi due km mi danno subito l'idea di cosa mi aspetta, la salita sarà un bagno di sangue.

160 km percorsi e ora comincia il bello, una sequenza infinita di tornanti che arrampicano impietosi sul fianco ripido della montagna. Una parte è stata asfaltata per il transito del giro d'Italia e nella mia follia me ne ero dispiaciuto, ora sto cambiando idea: così pesante e affaticato anche l'asfalto è duro.


A 1450 m trovo una casermetta degli alpini abbandonata con una meravigliosa fontana davanti, quasi mi affogo nell'acqua ghiacciata e quando sollevo la testa comincio a considerare di fermarmi a dormire, mi guardo intorno, c'è un piccolo piazzale scavato nel pendio ma non mi piace, decido di procedere sperando di trovare un piccolo spazio piatto, fin ora non ne ho visti.

Ancora un paio di tornanti e sono in un alpeggio con due o tre baite, una affaccia sulla strada soprelevata di qualche metro, una ricognizione  mi convince, porto sopra la bici, monto la tenda su un terrazzino d'erba accanto alla baita e sono come un'aquila nel nido, domino la strada.

Non avendo più visto negozi di alimentari sono con barrette, frutta secca, cioccolato e uova sode. Mi accontento, anche se un pezzo di pane non mi dispiacerebbe. Una telefonata a casa, che meraviglia la telefonia al giorno d'oggi, garantisce una sicurezza impensabile fino a dieci quindic'anni fa, ed è subito sonno. Sono proprio contento del materassino Thermarest che ha sostituito il vecchio Camp, questo è più piatto anche se più sottile, ma ha camere più fitte che lo rendono confortevole e robusto, i grossi tubolari del vecchio riducevano lo spazio utile oltre a renderlo meno comodo. Ci ho un po' rimesso in peso e volume ma il riposo adeguato non ha prezzo (è anche più caro).



La mattina del secondo giorno la fatica è scomparsa e dopo una barretta sono pronto a ripartire, sono le sei e mezzo ma non fa molto freddo nonostante la quota. A riposo riesco a salire senza fermate frequenti, inizialmente sono immerso nelle nubi che risalgono il pendio, lentamente lascio la vegetazione alta arrivando alle zone erbose e comincia anche a rompersi la copertura di nubi mostrando i primi squarci d'azzurro. 





Dimenticavo che mi sono lasciato dietro l'asfalto poco dopo la partenza, la guida diventa più barcollante da un lato all'altro della strada alla ricerca della linea più liscia nel tentativo di evitare buche e pietre, peccato perché distoglie molta dell'attenzione al panorama che è meraviglioso non essendo più nascosto da alberi e nubi.



Una V si staglia in alto sulla cresta e si intuisce appena la forma spigolosa di una fortezza della Grande Guerra, la prima, quello dovrebbe essere il COLLE, ci sono già stato ma tanto tempo fa e in moto, cambia totalmente la percezione in bici.






Ogni tanto incrocio un pick-up, probabilmente allevatori, boscaioli o pastori, ho scambiato due chiacchiere con un fornaio che raccoglieva fascine per il forno, immancabilmente il discorso è finito al virus, il governo, l'inefficacia delle sue azioni, l'incertezza, la preoccupazione per i figli e... comunque la determinazione ad abbassare la testa e tirare per superare anche questa prova.


Ormai si mostrano le chiostre dei monti circostanti che svettano nell'azzurro, alcune tutte verdi, altre rocciose e parecchie ancora innevate, sono al colle delle finestre dove i guardaparco dell'Orsiera Rocciavrè controllano il traffico, il mercoledì e il sabato la strada è interdetta ai mezzi a motore dalle sette alle venti se non ricordo male.






Chiedo qualche informazione sul percorso, mi infilo la giacca perché un vento maligno mi gela la maglietta sudata e dopo una rapida occhiata a forte, fontana e tabellone del passo mi avvio verso una planata di qualche centinaio di metri. Questo lato della valle il cielo è completamente blu, le marmotte fischiano all'impazzata e ne vedo parecchie correre verso la tana, una addirittura sotto un sasso a bordo strada.



Il rifugio dell'alpe Pintas è un richiamo troppo forte, cappuccino e crostata sono d'obbligo. Ancora un po' in discesa e s'imbocca la strada del passo dell'Assietta dove inizio ad incrociare altri ciclisti, prevalentemente in mtb, ma anche uno straniero con la gravel. Anche qui la salita non scherza ma il panorama ti fa dimenticare la fatica, monti tutto attorno e un mare di nubi sotto.



Supero il colle dell'Assietta e attacco il colle Lauson, poi il Blegier e il Genevrì dalla pendenza esagerata che mi fa sudare parecchio e usare il rapporto più corto, infine il col Basset che segna la fine del percorso in salita. Pausa sulla terrazza panoramica del col Basset che poteva essere un'antica postazione di cannoni.













Nell'ultimo tratto incrocio un ragazzo olandese anche lui con bici gravel, parliamo un po' e mi racconta di essere rimasto senz'acqua così facciamo a metà della mia ultima borraccia, sperando che mi sia sufficiente per il resto della salita.

Dopo aver scambiato qualche parola con altri ciclisti e scattato un po' di foto sono pronto per la picchiata finale, sperando che la gomma anteriore sopporti le pietre e il carico. Metto sotto pressione i freni per evitare di prendere troppa velocità e arrivo alla quota dove riappare la vegetazione, tornante dopo tornante arrivo all'asfalto e a Sestriere. Un piccolo giro esplorativo e continuo a scendere fino a borgata Sestriere dove pero invano di mangiare qualcosa, ma tutti i locali sono chiusi e l'uno bar offre solo gelati.


Non mi resta che continuare giù per la val Chisone verso Pragelato, che avevo visto dall'alto del percorso resa molto riconoscibile dai trampolini del salto con gli sci. La velocità mette freddo ma non ho voglia di fermarmi per indossare la giacca, non vedo l'ora di mettere qualcosa sotto i denti.
Mi ritrovo in un bar, il Riverside, proprio accanto agli enormi trampolini con le vertiginose piste di lancio in sintetico verde, sono paralleli e dai 35 m vanno fino alla categoria dei 120m, praticamente ti fa volare come un aereo.


Il periodo di lock-down ha fermato ogni attività e qui ancora stenta a riprendere il turismo, ci sono solo piadine, me ne prendo una con la porchetta, anche se preferirei un panino, ma devo dire che era buonissima e il proprietario resta a parlare con me, unico cliente, mentre mangio e bevo una Coca. Un bel caffè chiude il pasto e rimango a poltrire un po' per recuperare.

Sono in difficoltà perché non so decidere fin dove arrivare questa sera, se rimango nella valle probabilmente troverò un posto migliore e più fresco per campeggiare ma avrò percorso poca strada e domani sarà ancora più dura. Mentre scendo spensierato per la valle mi godo il panorama senza pedalare, il paese di Fenestrelle offre un colpo d'occhio eccezionale sulla maestosa fortezza che, costruita come una serie di blochi di lego, arrampica sulla ripida costa della montagna ospitando caserme, magazzini, passaggi coperti, fortificazioni, postazioni di cannoni e altre strutture logistiche militari.



Passata Perosa Argentina la valle comincia ad allargarsi vistosamente e i fianchi montuosi si abbassano, siamo prossimi a Pinerolo e la temperatura si è decisamente alzata. Decido di trovare un posto per campeggiare, domani mi ammazzerò di fatica percorrendo più strada. Il primo tentativo mi vede esplorare un boschetto accanto alla pista ciclabile, il solo tempo di guardarmi attorno e sono circondato da un nugolo di zanzare fameliche, tentativo naufragato! scappo a gambe levate.
Poco più avanti trovo una specie di area pic-nic con accesso solo pedonale ed erba molto alta, mi dà l'impressione di essere poco frequentata e addentrandomi scopro un sentiero che porta sull'argine del torrente Chisone. 

Mi pare il posto ideale, appoggio bici alla staccionata e mi sistemo in una piccola area nascosta dagli alberi alla strada, anche se proprio accanto al sentiero. Sono impolverato come un dolce coperto di zucchero a velo quindi dedico una borraccia a insaponarmi e sciacquarmi nella parodia di una doccia essenziale saltellando sull'erba nudo come un verme. Devo essere una visione stupefacente di essere a fasce orizzontali di colore diverso, braccia viso e gambe di un marrone scuro violaceo per il sole inclemente, mani e piedi protetti da calze e guanti un poco più chiari, fascia meno abbronzata a mezza coscia confine dei pantaloncini da running e area bacino bianca. Questa specie di bruco si infila un paio di pantaloni e una canottiera fluo diventando un poco più anonimo e si prepara un'insalata di sopravvivenza mischiando pomodori e tonno nel sacchetto della lattuga già lavata, con un panino integrale è un pasto eccezionale.

Con la tenda ormai in posizione mi siedo davanti all'ingresso a godermi l'insalata, un paio di pescatori passano augurandomi buon appetito e più tardi una coppia in passeggiata con cani va e ritorna. Il posto sembra comunque tranquillo e decido di rimanere. La temperatura è parecchio calda ma almeno le zanzare non compaiono fino all'imbrunire.

Decido di stare solo col telo interno della tenda e non usare il sacco a pelo visto il calore, mi assopisco e risveglio dopo qualche ora con un freddo che mi rattrappisce, cambio piano e installo il telo esterno al volo, ma non ho voglia di estrarre il sacco a pelo dalla bici così mi infilo i pantaloni in Goretex e mi copro con la giacca passando il resto della notte raggomitolato come un feto.



Il terzo giorno comincia con pane e cioccolato, alle sette sto pedalando verso Pinerolo e ormai la discesa è solo un ricordo, navigo seguendo la traccia sul gps, purtroppo ho commesso una leggerezza, per rendere più veloce l'inizializzazione tempo fa avevo estratto la scheda di memoria con la cartografia dettagliata d'Italia e mi ritrovo con la carta europea installata di serie, non è comunque un problema grave. Avendo tracciato il percorso per bici con Wikilock mi fa seguire percorsi un po' strani e secondari costringendomi a verificare continuamente la posizione.

A Moncalieri tappa colazione calda e via di nuovo verso le colline del Monferrato, davanti a sinistra i colli di Torino con la basilica di Superga in bella vista anche se lontana. La traccia generata dall'applicazione mi fa percorrere belle stradine solitarie che serpeggiano nella campagna senza la noia del traffico, talvolta facendomi tagliare attraverso tratti di carrarecce sterrate o ghiaiose.

dopo un bel tratto di pianura eccomi a Castelnuovo Don Bosco dove inizia il terreno movimentato del Monferrato e morbide colline dai pendii coperti di vigne si stendono ininterrotte arrampicando in creste più erte dominate dagli infiniti paesi dei vini storici locali. 

La strada segue vallette e a volte devia sullo sterrato per scavalcare un crinale in strappi mozzafiato pur se non molto lunghi, ormai la temperatura si è alzata e comincio a boccheggiare, un paio di volte alla ricerca di un bar provo ad arrampicarmi fino al centro di un paese trovando una desolazione di esercizi chiusi, evidentemente ancora qui non è partita l'economia, non c'è anima viva in circolazione.
Pranzo a Cunico vicino ad una fontanella che mi permette di rifornire le borracce.

Cereseto, Ozzano e finalmente comincio a trovare indicazioni per Casale Monferrato, ormai ho superato i 100km e il sol mi sta grigliando impietosamente, sono bagnato come un pulcino con sudore che mi cola negli occhi e un bar sembra il miraggio di un'oasi nel deserto, mi compro un ghiacciolo e mi siedo all'ombra a godermelo immobile come un coccodrillo.

Abbassata la temperatura corporea quel tanto che basta per ripartire copro ancora una quindicina di km fino al prossimo stop granita, purtroppo questo caldo non mi fa godere dell'ambiente circostante, i vigneti, i paesini arroccati e i castelli rossi di mattoni. Ancora avanti con l'incoraggiamento di due simpatici vecchietti seduti al bar e mi ritrovo a Casale, ormai sento aria di casa anche se le terga cominciano a fumare e bruciare un po'.

Passato il ponte sul Po e poi quello sul Sesia sono di nuovo tra le stradine tra le risaie di casa mia che a meandri infiniti scorrono nel verde meraviglioso del riso punteggiato di grandi uccelli bianchi dalle lunghe zampe e i gran becchi affilati che cacciano le rane.

Sono a casa, il giro è finito, mi sono tolto un'altra soddisfazione e mi sono divertito, ma che fatica il ritorno, il continuo saliscendi dei colli non fa sconti. Arrivederci alla prossima uscita, con qualsiasi mezzo sarà.





giovedì 28 maggio 2020

Myanmar 24 Yangon

24 novembre 2018        Sabato         G24                           Yangon



Oggi è l’ultimo giorno in Myanmar, dopo la colazione salutiamo e ringraziamo i ragazzi del personale, sono molto felici, evidentemente non accade spesso, qualche foto dalla terrazza e siamo pronti per riempire i bagagli e lasciarli in custodia alla reception.






Vorremmo visitare Dahla, il quartiere povero dall’altro lato del fiume, lo Yangon river, ci spostiamo al porto dei ferry-boat dove scopriamo che c’è una biglietteria apposita per stranieri, registrazione del passaporto, 400Kiat a/r e inclusa una bottiglietta d’acqua.
Nella sala d’imbarco c’è una ressa clamorosa, attendiamo lo sbarco di un fiume di persone cariche di mercanzie e vegetali da vendere, biciclette scooter, dirette in città e quasi immediatamente saliamo a bordo sistemandoci a prua, area destinata ai turisti con cartelli che vietano l’accesso ai locali. Ancor prima dell’imbarco siamo già stati contattati da più persone che si propongono di guidarci nella visita dell’altra sponda, suggerendo velatamente che è pericoloso andare soli, rifiutiamo comunque.









In cinque minuti siamo a Dahla, trascinati dalla moltitudine arriviamo sui pontili dove siamo prontamente agganciati dai taxisti che ci propongono visite guidate in rikshaw a pedali, ancora una volta ringraziamo e rifiutiamo seguendo a piedi le indicazioni e la mappa Lonely Planet.
Il quartiere è veramente povero, viottoli costellati di capanne e baracche di lamiera si inoltrano nel verde, costeggiati da piccoli canali, ci dirigiamo verso un tempio Indù osservando la vita che scorre intorno a noi, le persone affaccendate davanti casa, i bimbi che giocano e gli animali che razzolano.






Il tempio, come tutti gli altri della stessa religione incontrati è chiuso, tutto colorato e coperto di statue dai mille volti spesso mostruosi e nelle pose più disparate è veramente suggestivo con lo sfondo del cielo e le fronde degli alberi attorno, peccato non poterlo vedere all’interno.





Sulla mappa è segnato un mercatino di prodotti locali che la guida indica come caratteristico, seguiamo piccole strade di lastre di cemento per andare a cercarlo. Ponticelli e baracche in pessimo stato ci accompagnano sempre immersi nel verde, solo qualche rara abitazione è di mattoni e dipinta in colori sgargianti.







Le attività domestiche si alternano ai lavori di costruzione e i bambini giocano spensierati interrompendosi solo quando ricevono i pennarelli e le caramelle, i loro occhioni spalancati in attesa si assottigliano nei sorrisoni di felicità quando ricevono il loro piccolo dono.






Ci infiliamo in un sentiero ma dei ragazzi ci fermano facendoci capire che di li non si passa e ci indicano una strada più grande, finalmente di fronte ad un appezzamento allagato e pieno di erbacce con due capannoni deserti, circondato da una recinzione semidistrutta pensiamo di aver sbagliato. Provo ad entrare a vedere, uno stuolo di cani randagi e di corvi si aggira sotto la tettoia piena di vecchie cose, due o tre venditori espongono un po’ di merce malandata, più che un mercato sembra una discarica.



 

Ci avevano avvisati che Dahla è un quartiere povero, ma effettivamente non pensavamo fino a questo punto, è veramente derelitto.






Avviati al ritorno seguiamo un porto-canale con parecchie barche colorate sulla riva e stamberghe che guardano l’acqua.





Di fronte ad un bar dove c’è un po’ di gente ed un taxi libero.


Incastrati negli stretti sedili del trikshaw fatti per il fisico dei birmani, felici di non dover camminare nella calura, ci facciamo portare da un ometto esile che pedala infaticabile mentre noi guardiamo attorno fino all’imbarcadero.




Abbiamo già il biglietto e come dei viaggiatori navigati saliamo a bordo raggiungendo l’area riservata sul ponte superiore a prua, “la business class”.
Aspettando di salpare osserviamo il movimento sul fiume, una long tail dopo l’altra cala la rete da pesca, sostenuta da bottiglie di plastica, al centro del fiume e con essa si fa trasportare dalla corrente, i traghetti si infilano tra le lunghe reti cercando un passaggio per l’altra sponda.

Il caldo è feroce e dal molo enormi vialoni affiancati dai vecchi e cadenti palazzi coloniali scorrono verso il centro, strisciando contro i muri e sotto le fronde degli alberi alla ricerca di un po’ d’ombra, andiamo in un locale in stile inglese dove siamo già stati.






Il cameriere ci apre la porta ed entriamo in un altro mondo, pulito e condizionato, dove pranzare e recuperare le energie per un paio d’ore.
Un’altra camminata ci porta fino al parco di fronte alla Sula Pagoda, un gazebo allestito sotto ai grandi alberi ospita un piccolo country contest dove un gruppetto di musicisti in jeans, stivali, camicia scozzese, cappello da cow boy e volto asiatico suonano la chitarra cantando accompagnati da un violino ed un sax, non mancano le groupie con gli occhi a mandorla.
E’ molto gradevole ascoltare la musica su una panchina all’ombra, uno spettacolo inaspettato.


A fatica lasciamo il parco per andare a rivedere la Sula Paya che è proprio al centro della rotatoria di fronte a noi, questa colta ci fanno pagare l’ingresso e c’è una poliziotta con la faccia da Cerbero che controlla tutto. All’interno non corre un filo d’aria e il sole implacabile arrostisce i visitatori, ci trasciniamo attorno allo stupa col nostro bollino appiccicato addosso come due banane Chiquita fino a completare la visita.



Abbiamo di nuovo le “gomme sgonfie” così torniamo al centro commerciale vicino al Bogyoke market dove c’è un panificio occidentale che produce ogni sorta di dolciume, qui possiamo ricaricare le batterie al fresco, sorseggiare un cappuccino, mangiare un croissant e sfruttare il wifi.
Dopo un giro tra le vetrine torniamo all’hotel, sono ormai le otto di sera e siamo pervasi da quel velo di malinconia che caratterizza la fine della vacanza, anche siamo contenti di tornare a casa dai figli.
Alle nove un taxi ci preleva e in mezz’ora di guida forsennata ci deposita all’aeroporto dove ci aspetta una bell’attesa, il tabellone dell’aeroporto internazionale di Yangon è poco più di un televisore con una decina di voli.
Finalmente, dopo una lunga coda riusciamo ad imbarcarci e non ci resta che guardare un film.