giovedì 28 maggio 2020

Myanmar 24 Yangon

24 novembre 2018        Sabato         G24                           Yangon



Oggi è l’ultimo giorno in Myanmar, dopo la colazione salutiamo e ringraziamo i ragazzi del personale, sono molto felici, evidentemente non accade spesso, qualche foto dalla terrazza e siamo pronti per riempire i bagagli e lasciarli in custodia alla reception.






Vorremmo visitare Dahla, il quartiere povero dall’altro lato del fiume, lo Yangon river, ci spostiamo al porto dei ferry-boat dove scopriamo che c’è una biglietteria apposita per stranieri, registrazione del passaporto, 400Kiat a/r e inclusa una bottiglietta d’acqua.
Nella sala d’imbarco c’è una ressa clamorosa, attendiamo lo sbarco di un fiume di persone cariche di mercanzie e vegetali da vendere, biciclette scooter, dirette in città e quasi immediatamente saliamo a bordo sistemandoci a prua, area destinata ai turisti con cartelli che vietano l’accesso ai locali. Ancor prima dell’imbarco siamo già stati contattati da più persone che si propongono di guidarci nella visita dell’altra sponda, suggerendo velatamente che è pericoloso andare soli, rifiutiamo comunque.









In cinque minuti siamo a Dahla, trascinati dalla moltitudine arriviamo sui pontili dove siamo prontamente agganciati dai taxisti che ci propongono visite guidate in rikshaw a pedali, ancora una volta ringraziamo e rifiutiamo seguendo a piedi le indicazioni e la mappa Lonely Planet.
Il quartiere è veramente povero, viottoli costellati di capanne e baracche di lamiera si inoltrano nel verde, costeggiati da piccoli canali, ci dirigiamo verso un tempio Indù osservando la vita che scorre intorno a noi, le persone affaccendate davanti casa, i bimbi che giocano e gli animali che razzolano.






Il tempio, come tutti gli altri della stessa religione incontrati è chiuso, tutto colorato e coperto di statue dai mille volti spesso mostruosi e nelle pose più disparate è veramente suggestivo con lo sfondo del cielo e le fronde degli alberi attorno, peccato non poterlo vedere all’interno.





Sulla mappa è segnato un mercatino di prodotti locali che la guida indica come caratteristico, seguiamo piccole strade di lastre di cemento per andare a cercarlo. Ponticelli e baracche in pessimo stato ci accompagnano sempre immersi nel verde, solo qualche rara abitazione è di mattoni e dipinta in colori sgargianti.







Le attività domestiche si alternano ai lavori di costruzione e i bambini giocano spensierati interrompendosi solo quando ricevono i pennarelli e le caramelle, i loro occhioni spalancati in attesa si assottigliano nei sorrisoni di felicità quando ricevono il loro piccolo dono.






Ci infiliamo in un sentiero ma dei ragazzi ci fermano facendoci capire che di li non si passa e ci indicano una strada più grande, finalmente di fronte ad un appezzamento allagato e pieno di erbacce con due capannoni deserti, circondato da una recinzione semidistrutta pensiamo di aver sbagliato. Provo ad entrare a vedere, uno stuolo di cani randagi e di corvi si aggira sotto la tettoia piena di vecchie cose, due o tre venditori espongono un po’ di merce malandata, più che un mercato sembra una discarica.



 

Ci avevano avvisati che Dahla è un quartiere povero, ma effettivamente non pensavamo fino a questo punto, è veramente derelitto.






Avviati al ritorno seguiamo un porto-canale con parecchie barche colorate sulla riva e stamberghe che guardano l’acqua.





Di fronte ad un bar dove c’è un po’ di gente ed un taxi libero.


Incastrati negli stretti sedili del trikshaw fatti per il fisico dei birmani, felici di non dover camminare nella calura, ci facciamo portare da un ometto esile che pedala infaticabile mentre noi guardiamo attorno fino all’imbarcadero.




Abbiamo già il biglietto e come dei viaggiatori navigati saliamo a bordo raggiungendo l’area riservata sul ponte superiore a prua, “la business class”.
Aspettando di salpare osserviamo il movimento sul fiume, una long tail dopo l’altra cala la rete da pesca, sostenuta da bottiglie di plastica, al centro del fiume e con essa si fa trasportare dalla corrente, i traghetti si infilano tra le lunghe reti cercando un passaggio per l’altra sponda.

Il caldo è feroce e dal molo enormi vialoni affiancati dai vecchi e cadenti palazzi coloniali scorrono verso il centro, strisciando contro i muri e sotto le fronde degli alberi alla ricerca di un po’ d’ombra, andiamo in un locale in stile inglese dove siamo già stati.






Il cameriere ci apre la porta ed entriamo in un altro mondo, pulito e condizionato, dove pranzare e recuperare le energie per un paio d’ore.
Un’altra camminata ci porta fino al parco di fronte alla Sula Pagoda, un gazebo allestito sotto ai grandi alberi ospita un piccolo country contest dove un gruppetto di musicisti in jeans, stivali, camicia scozzese, cappello da cow boy e volto asiatico suonano la chitarra cantando accompagnati da un violino ed un sax, non mancano le groupie con gli occhi a mandorla.
E’ molto gradevole ascoltare la musica su una panchina all’ombra, uno spettacolo inaspettato.


A fatica lasciamo il parco per andare a rivedere la Sula Paya che è proprio al centro della rotatoria di fronte a noi, questa colta ci fanno pagare l’ingresso e c’è una poliziotta con la faccia da Cerbero che controlla tutto. All’interno non corre un filo d’aria e il sole implacabile arrostisce i visitatori, ci trasciniamo attorno allo stupa col nostro bollino appiccicato addosso come due banane Chiquita fino a completare la visita.



Abbiamo di nuovo le “gomme sgonfie” così torniamo al centro commerciale vicino al Bogyoke market dove c’è un panificio occidentale che produce ogni sorta di dolciume, qui possiamo ricaricare le batterie al fresco, sorseggiare un cappuccino, mangiare un croissant e sfruttare il wifi.
Dopo un giro tra le vetrine torniamo all’hotel, sono ormai le otto di sera e siamo pervasi da quel velo di malinconia che caratterizza la fine della vacanza, anche siamo contenti di tornare a casa dai figli.
Alle nove un taxi ci preleva e in mezz’ora di guida forsennata ci deposita all’aeroporto dove ci aspetta una bell’attesa, il tabellone dell’aeroporto internazionale di Yangon è poco più di un televisore con una decina di voli.
Finalmente, dopo una lunga coda riusciamo ad imbarcarci e non ci resta che guardare un film.